Il caso di Jozef Tiso, il prete slovacco che per le sue idee nazionaliste scelse Hitler e le leggi razziali. E poi la sua tragica fine. Fu impiccato e morì con un rosario tra le mani. Una storia raccontata da Vincenzo Di Michele

 Il caso di Jozef Tiso, il prete slovacco che per le sue idee nazionaliste scelse Hitler e le leggi razziali . E poi la sua tragica fine. Fu impiccato e morì con un rosario tra le mani. Una storia raccontata da Vincenzo Di Michele

 La memoria è difficile da affrontare, specie se a dare gli ordini fu un prete: Jozef Tiso, nato nel 1887 a Bytča, una città della Slovacchia. Il giovane Jozef, entrato nel Seminario di Nitra verso i quindici anni, studiò teologia a Vienna, si appassionò in modo particolare alla dottrina sociale della chiesa e venne ordinato sacerdote a ventiquattro anni. Fu proprio lui che nel febbraio 1942 concluse un accordo con i tedeschi per il trasporto degli ebrei verso i lager nazisti.

Papa Francesco, andando a trovare la comunità ebraica slovacca nel mese di settembre del 2021 a Bratislava, celebrò e rievocò una vicenda complessa, simbolica e dolorosa. Proprio in quell’occasione affermò: “Difficile dimenticare una delle pagine più oscure della Chiesa visto che in questo paese, il nome di Dio è stato disonorato; la blasfemia peggiore che gli si può arrecare è quella di usarlo per i propri scopi, anziché rispettare e amare gli altri”.

Il riferimento implicito di questa sua riflessione spirituale non poteva non rivolgersi anche a monsignor Jozef Tiso, il prete filo-nazista divenuto presidente, il cui nome ancora oggi fa rabbrividire i discendenti dei pochi sopravvissuti. La sua storia è così riassunta. Una volta divenuto prete si dedicò alle attività caritative, poiché le sentiva come la missione della sua vita, anche se dall’altra parte si dedicò con grande impegno alla causa dell’autonomia della Slovacchia che, nel sistema imperiale della duplice monarchia asburgica, apparteneva allora alla corona d’Ungheria.

Si iscrisse così al partito popolare slovacco, di ispirazione cattolica, e verso la fine degli anni ’30, divenne prima leader del partito popolare, poi primo ministro e infine presidente del governo. Nel marzo del 1939 Tiso fu convocato da Hitler a Berlino per trattare dell’indipendenza del suo Paese. In realtà fu costretto a decidere tra un’illusoria autonomia della Slovacchia o un’eventuale spartizione di quest’ultima tra l’Ungheria e la Polonia, come appunto minacciava il Führer.

Alla stregua di ciò, non gli fu data alternativa se non quella di una forzata alleanza con la Germania, passaggio questo che fu condannato dalla Santa Sede. Lo Stato slovacco fu proclamato nel marzo del 1939, anche se nella realtà la sua indipendenza era solo illusoria, nel senso che il Paese era a tutti gli effetti uno Stato vassallo tanto che, sin dagli inizi, attuò un programma di governo nazionalsocialista.

Gli ebrei in Slovacchia non potevano essere né proprietari di beni immobili né di beni di lusso. Erano estromessi dagli incarichi pubblici, dalle libere professioni, dalle scuole secondarie e dalle università. Non potevano partecipare a eventi sportivi o culturali e dovevano indossare in pubblico la stella di David. Tiso – come molti all’epoca – manifestava personalmente dei forti risentimenti antisemiti, anche se nel suo pensiero c’era un rifiuto alla violenza e soprattutto escludeva aprioristicamente il concetto della “soluzione finale”, ossia del genocidio. La sua idea della questione ebraica in Slovacchia doveva ispirarsi a una sorta di “via graduale”, dove praticamente gli ebrei dovevano essere esclusi dalla vita economica e sociale; di conseguenza non potevano assumere incarichi e posizioni dominanti nella vita sociale.

Tale sentimento di opposizione agli ebrei derivava dal risultato della confluenza di vari fattori, tra cui una dottrina cattolica chiusa, un nazionalismo esasperato e soprattutto un forte sentimento antimagiaro. Infatti, in Slovacchia la maggioranza della popolazione ebraica era proprio di lingua e cultura ungherese. In sostanza tutto ciò non fece altro che alimentare sempre di più quell’odio verso il popolo ebraico. C’era inoltre il fattore economico: gli ebrei slovacchi avevano allora in mano la stragrande maggioranza delle industrie e di fatto prevalevano sugli slovacchi.

Alla stregua del predetto assunto Tiso voleva dunque ribaltare questa situazione a favore del suo popolo e la soluzione da lui proposta era quella di trasferire gli ebrei, in maggioranza di lingua magiara, nella vicina Ungheria. Nel 1944, mentre da est si avvicinava la minaccia dell’Armata Rossa, i tedeschi invasero la Slovacchia e così in un brevissimo lasso di tempo quest’ultima perse anche quella parvenza d’indipendenza che ancora sembrava avere. Al termine della guerra, Tiso fuggì attraverso l’Austria in Baviera ad Altötting, trovando rifugio all’interno di un monastero. Qui fu catturato dagli Alleati e riconsegnato al nuovo Stato cecoslovacco. Fu imprigionato con l’accusa di tradimento e collaborazione con i nazisti. Sebbene il presidente Edvard Beneš avesse la possibilità di concedere la grazia, di fatto egli lasciò che la decisione definitiva fosse presa dal governo. I ministri socialisti e comunisti, contrari alle misura di clemenza, prevalsero su quelli del partito democratico e del partito popolare slovacco.

All’alba del 18 aprile del 1947, nel cortile del tribunale di Bratislava, Josef Tiso, accompagnato da un frate cappuccino, saliva i pochi gradini di un patibolo, su cui incombeva una forca. Si scelse l’impiccagione perché considerata più degradante della fucilazione, in modo che la morte non fosse immediata, ma una lenta agonia tra  tormenti e terrori. E così, dopo che la botola gli si aprì sotto i piedi, l’espressione del condannato si trasformò lentamente in un orribile corpo contratto da spasmi facciali, mentre dalle sue mani scivolava la corona di un rosario.

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