Elio Pannuti: testimonianza dell’agente che sorvegliò Mussolini nel 1943 a Campo Imperatore

Questo articolo utilizza come fonte il libro di Vincenzo Di Michele, “Quel falso mito sulla liberazione del duce Il testo di Di Michele (acquistabile sia in versione e-book che cartacea) costruisce un quadro documentato, fatto di ricerche d’archivio, elenchi, piste riaperte, testimoni ritrovati dopo decenni, e soprattutto di testimonianze dirette capaci di ridimensionare il racconto epico sedimentato dalla propaganda sulla liberazione di Mussolini sul Gran Sasso.

In questo scenario emerge con forza la figura di Nelio Pannuti, l’agente di guardia che ebbe l’incarico di sorvegliare Benito Mussolini a vista durante la sua prigionia. Non un personaggio laterale, dunque, ma una voce del dispositivo di custodia, quella che restituisce la realtà sui giorni che precedettero l’arrivo dei tedeschi e la liberazione del 12 settembre 1943.

La sostanza, quando a raccontarla è chi era presente, cambia contorni e proporzioni.

Chi è Nelio Pannuti e l’importanza della sua testimonianza

Un bar, il caffè del mattino, un signore distinto vicino ai novant’anni che occupa sempre lo stesso tavolino con il giornale in mano. È lì che l’autore incontra Nelio Pannuti, scoprendo che quell’uomo dai modi garbati è stato l’agente di guardia alle dirette dipendenze del maresciallo Antichi, con l’incarico specifico di sorvegliare Mussolini “a vista” durante la permanenza a Campo Imperatore. Non è un dettaglio: Pannuti non parla “per sentito dire”, era sul posto, nel cuore del perimetro di sicurezza. Saputo dell’indagine storica, decide di contribuire con una dichiarazione scritta di suo pugno, preziosa per nitidezza e misura.

Il suo racconto corregge due elementi chiave della narrazione comune: l’assenza di un piano di difesa e l’assenza di ordini di reazione. In altre parole, la guarnigione non fu chiamata a combattere, e quando gli alianti tedeschi toccarono suolo a Campo Imperatore, l’azione si consumò senza una resistenza organizzata.

Pannuti aggiunge un particolare dal valore simbolico: dopo la liberazione, italiani e tedeschi si ritrovarono “tutti con le armi in spalla, pacificamente”, nella sala dell’albergo. In quella cornice, il generale Soleti intimò per ben due volte a Skorzeny di restituirgli la pistola; dopo una breve esitazione, Skorzeny estrasse una piccola pistola dalla giacca e la consegnò. Un gesto che incrina l’immagine dell’irruzione senza mediazioni e che suggerisce un clima operativo tutt’altro che da scontro finale.

Le ore che precedono l’assalto

Le tessere che precedono il 12 settembre, nella ricostruzione di Di Michele, si allineano anche grazie ad altre voci interne al corpo di guardia. Luigi Teofani racconta la ripartizione dei presidi tra la base della funivia e l’albergo; il figlio di Vincenzo Scarpino riferisce che la sera dell’11 settembre venne impartito l’ordine di togliere le mitragliatrici dal tetto e di mettere i cani in cantina. Non il preludio di una resistenza a oltranza, dunque, ma un abbassamento del profilo difensivo. Nella stessa trama entra un aneddoto che umanizza quel contesto sospeso: Scarpino porta a Mussolini un piatto di quaglie arrosto, ma il Duce, sofferente di ulcera, rifiuta e gli dice di mangiarle lui; l’agente, quel giorno, si appropria delle posate, della coperta e della chiave della stanza 201, cimeli poi smarriti negli anni.

Intanto Pannuti insiste su un punto cruciale: la presunta “ubicazione segreta” di Mussolini era di fatto conosciuta; curiosi travestiti da pastori tentavano di sbirciare nell’albergo. Tre giorni prima dell’azione, Mussolini passeggia con il maresciallo Antichi, si siede su un masso lungo il sentiero verso Assergi; Pannuti allontana un gruppetto, ma il Duce lo ferma: “Agente, non fateli passare di là, potrebbero farsi del male”. Antichi, con tranquilla autorevolezza, chiude il cerchio: “Fai come ti ha detto, Sua Eccellenza”. Un quadro di normalità vigilata, non di bunker assediato. E sullo sfondo, figure non appartenenti né al corpo di guardia né al personale, ospiti per giorni in albergo.

Il momento della liberazione

Quando i tedeschi assaltano l’albergo, tutto accade in pochi minuti. Pannuti lo dice senza enfasi: non c’erano ordini di aprire il fuoco, non c’era un piano di difesa, nessuno aveva avvertito di un’azione imminente. “Sembrava più un’azione concordata”, riassume. Il dopo è addirittura dissonante rispetto alla retorica eroica diffusa nel dopoguerra: raduno nella sala dell’albergo, armi a tracolla, atmosfera pacifica, la scena della pistola resa da Skorzeny a Soleti come in un passaggio di consegne. Perché conta? Perché la memoria pubblica ha cristallizzato quell’operazione come un assalto disperato contro una difesa feroce, mentre la testimonianza parla di vuoto d’ordini, sorpresa gestita, assenza di ingaggio.

Cosa impariamo dalla voce di Pannuti: metodo, misura, memoria

La dichiarazione autografa di Nelio Pannuti, raccolta da Vincenzo Di Michele, non è solo una memoria personale: è una chiave di lettura. A Campo Imperatore non c’è la fortezza inespugnabile, c’è un albergo con un perimetro di vigilanza, un presidio diviso tra valle e quota, un clima di incertezza, e la normalità straniante di un capo di governo deposto che passeggia, osserva, interviene persino per evitare che dei curiosi si facciano male.

Ne esce una storia più sobria e più vera, dove Mussolini viene liberato, i tedeschi portano a termine un’operazione riuscita, ma l’eroismo assoluto evapora. Resta ciò che conta: la precisione dei fatti e il dovere di raccontarli senza una scenografia distorta, proprio quellop che Vincenzo Di Michele si pone come obiettivo di divulgazione nel suo libro.

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